IL FARO
di Punta Palascia - Otranto
raccontato da chi all'interno ci ha vissuto
Il faro... a chi non ha quel cuore, sicuramente sembrerà una fredda luce che a intermittenza compare e scompare per indicare a chi va per mare dove ci si trova in quel momento e per segnalare la costa, una secca... a chi non ha quel cuore...e questo di notte.
Di giorno dovrebbe apparire come una specie di candela spenta messa li, a volte su un pizzo di un promontorio, a volte su una spiaggia, che so, adiacente ad una città... sempre una cosa senza calore... può sembrare. il faro... che ne potete sapere se non lo avete vissuto, ancor di più per lunghi anni cos'è un faro!
Un faro vive, ha sempre vissuto appunto, da quando è nato e il suo sangue sono le famiglie dei guardiani che lo hanno animato... pensate, nella maggioranza dei fari si può parlare di secoli, pensate quante famiglie si sono succedute, persone e ognuna di esse con una storia sua e fondamentalmente con nel carattere qualcosa in comune.
Il faro…messo li come un menhir…ma diciamo pure una sfinge, esposto, a sfidare tutti gli elementi della natura ma fermo, imperturbabile, sommo testimone degli eventi della storia che gli passano d’avanti. Pensate, il faro in cui io ho avuto la fortuna di abitare, aveva una targa, d’ottone ricordo, messa sulla parte superiore dell’ingresso con la data dell’anno in cui fu edificato…1861…mi è rimasta impressa. Sto parlando del faro di capo d’otranto… il punto più ad est d’Italia…
Otranto la porta d’oriente, come viene chiamata sin dall'antichità la mia città natale, punto di partenza per le crociate e casomai di ritorno…dipendeva dalla fortuna. Città, primo ed ultimo baluardo della difesa della cristianità e appunto per la difesa della fede distrutta dagli ottomani…Città, dove tra le sue mura si consumò un’immane tragedia…
Città dove, sempre per quella fede, si immolarono a nostro signore 800 martiri……decapitati… ma non rinnegarono!!!
Ma ritorniamo al nostro amico faro, quello di capo d’otranto, il mio faro, cosi lo definisco io, il faro della palascia per noi salentini. Ricordo la prima volta che mio padre, Gino Tarantino, guardiano del faro mi mandò ad accenderlo…a me a soli 10 anni, il giorno della mia prima comunione!
Però prima vi voglio descrivere dove è situato.
Geograficamente è il tallone d’italia, come ho anzidetto, il punto più ad est della penisola dove sorge per primo il sole, a soli 30 miglia marine dall’albania (60 km dall’isola di Saseno) di cui si possono mirare, quando le condizioni meteo lo permettono le bellissime montagne… a proposito c’è un proverbio locale che recita così – quando se vidine le muntagne dell’albania lu scirocco sta alla via – e naturalmente con lo scirocco un’eventuale mal tempo!
Dall’albania partirono i turchi, precisamente da Valona in quel tragico assedio nell’ estate del 1480. Per arrivare al faro, partendo da Otranto si deve percorrere una strada provinciale di circa 5 km , poi a piedi si fiancheggia un costone percorrendo una mulattiera di un km a strapiombo sulla scogliera che solo ultimamente è stata bordata da uno steccato, quindi si arriva alla meta, un fabbricato del 1861, allora quando vi ci abitavo, era composto da due appartamenti più i locali adibiti ad ufficio e naturalmente la colonna del faro che è alta, dalla base sul terrazzo alla punta superiore 40 metri, e una cisterna sotto l’appartamento inferiore perché li acqua neanche a parlarne, anche se, giù in mare, sfocia un fiume sotterraneo, almeno a detta di mio padre, don Gino il guardiano del faro di quell’epoca.
Questa cisterna veniva rifornita d’acqua periodicamente da una nave della marina militare di cui ricordo ancora il nome, Metauro e ricordo le bestemmie dei marinai nello stendere quella lunga manichetta che dalla nave che ormeggiava all’ancora risaliva per tutta la scogliera sino, appunto al fabbricato sottostante il faro, e il loro traballante equilibrio sugli scogli con i loro sandali con gli occhielli… mi sono rimasti impressi!
Poi, una volta entrati, la classica scala a chiocciola…150 scalini che io giovincello fumavo in un batter d’occhio e in ultimo 6 o 7 scalini di legno, dopodiché si arrivava alla magica lanterna, 3 facciate di strisce di cristalli a forma di cerchio, partivano da quello più grosso, poi l’uno dentro l’altro gli altri cerchi più piccoli, ogni facciata ne erano tre o quattro.
Ricordo che mio padre, don Gino, come lo chiamavano i pescatori di canna ma professionisti e i pecorai, come chiamavamo noi i pastori di pecore che facevano pascolare le loro greggi li davanti alle nostre finestre, mi diceva sempre - questi cristalli provengono dalla Svezia- … per rincararne la preziosità, tutto ciò montato su un telaio di ottone che noi figli, sistematicamente, periodicamente pulivamo ma, per me era un piacere dopo, vederli brillare più dell’oro. Sotto questo presunto tesoro vi era un sistema di orologeria con un contrappeso di piombo fissato ad un cavetto d’acciaio che si caricava con una manovella, 100 giri! Questo per scandire con precisione i fasci di luce.
Il lampo doveva apparire ogni 5'', perché dal periodo d’intervallo tra l’ uno e l’altro si riconosce specificamente un faro. La corda si dava quando si accendeva il faro, mezz’ora prima del tramonto e a mezzanotte! Il faro di Capo d’Otranto, come ho anzidetto, è situato alla fine di una scoscesa scogliera a meno di 100 metri dal mare e poi ai lati e alle spalle scogli e massi che però sino a 40- 50 metri dalla riva sono ricoperti dalla classica vegetazione mediterranea a fusto basso, molto basso, modellata così dal vento che spira instancabile quasi sempre, che comprende il mirto, il timo, l’origano e poi cespugli spinosi e altre piante che, tutte insieme diffondono il caratteristico profumo che sa di mediterraneo insieme alla fragranza del mare, che li quando spira lo scirocco si trasforma in un’impetuosa mareggiata e onde, gigantesche, s’infrangono sulla scogliera rombando e spumeggiando diffondendo appunto nell’aria quelle micro goccioline, elemento essenziale.
Fino ai primi anni 60, la luce del faro era alimentata dal petrolio come del resto tutta l’illuminazione… lumi di ottone. dopo arrivò l’elettricità e cambiò qualcosa, in meglio naturalmente ma si perse un po’ di fascino e comunque fu anche montato un gruppo elettrogeno in caso andasse via la corrente, perché il faro non doveva spegnersi mai. Se non funzionava il gruppo, quando mancava la corrente c’era un fanale a gas a parte ed in extremis… si ritornava al lume a petrolio… il faro la notte non doveva mai spegnersi ne la lanterna fermarsi nel suo giro a distribuire i fasci di luce! Li al faro c’era anche di che distrarsi, si pescava con canne e lenze e don Gino, allievo di quei pescatori su citati, sapeva ben fare e spesso portava a casa occhiate, saraghi, aguglie e il pezzo forte, più ricercato, la cernia! La cernia, allora bastava pescarla così – si catturava in precedenza un piccolo polipo e lo si passava sulla fiamma per qualche istante in modo che si arricciasse e mantenesse il suo profumo di fresco, si prendeva una grossa lenza con un grosso amo, si innescava il polipo e si buttava in mare sotto costa - la mattina dopo, se si era fortunati poteva capitare di trovare attaccata una bel pezzo! E poi si assisteva alla migrazione degli uccelli, specialmente tortore e quaglie che stanche della traversata, trovavano li il primo punto d’appoggio, e poi falchetti allodole e tante altre specie. Quando pioveva a settembre – ottobre, si raccoglievano le lumache, da maggio i capperi, che crescevano spontaneamente e a luglio l’origano.
Io praticamente sono cresciuto su quei scogli e se penso al modo con cui ci correvo sopra mi vengono gli incubi, scogli che sembrano le guglie di una chiesa gotica…ma chi ci pensava allora! Un’altra cosa che mai potrò togliere dai miei ricordi era il vento…li soffia quasi sempre. Ricordo il rumore incessante delle finestre che tremavano sotto le raffiche, rumore che sembrava si esaltasse specie quando andavo a letto la sera, pareva che i vetri, da un momento all’altro dovessero cedere e io mi insaccavo ancora di più sotto quelle coperte che sembravano zuppe d’acqua tanta era l’umidità, umidità che faceva staccare i calcinacci dalle volte e quando trapelava la minima corrente d’aria sembrava che nevicasse e pertanto ogni estate, armati di buona volontà si doveva rimbiancare tutto, arte questa che fortunatamente ho portato dietro negli anni. Un altro lavoro periodico, era quello di ravvivare il colore degli scalini a chiocciola e voi vi domanderete perché…erano e forse lo sono ancora di lavagnite e quindi, appunto per far risaltare il nero del minerale si passava uno straccio inumidito di gasolio, pensate, 150 scalini e tutto quell’odore misto di nafta, umidità e vari tipi di pitturazioni lungo la scala, tra passamano, porta lampade, finestrini e qualunque altra cosa si trovasse li, tutto questo miscuglio di odori che sicuramente doveva essere sgradevole, pensate, a me è rimasto più che nella mente… nel cuore.
Nel cuore perché, il fascino del faro, dal quale sarò coinvolto per tutta la vita, è fatto di queste piccole cose e a volte capita, in certi ambienti attuali, di risentire o di rivivere anche se in modo molto lato queste situazioni e credetemi, sento nel petto una dolce stretta che sa sicuramente di nostalgia e immancabilmente, davanti a me, ogni volta è come se si materializzasse la figura di don Gino che in tutti quegli anni trascorsi li al faro, ha trasmesso in me e agli altri miei fratelli, eravamo in sei: Rita, Rosaria Damiano, Florinda, io e la più piccola Anna Maria un’infinità d’insegnamenti, molti di questi da lui appresi in svariati anni di imbarco nella marina militare durante le numerose guerre, dall’Africa alla Spagna sino alla II guerra mondiale, bombardato e affondato e navigazioni in tutto il mondo.
Spesso, questi insegnamenti, nella mia vita attuale tornano ancora utili!
E questa, in grosso modo era la vita che si svolgeva una volta al faro. Al mio faro e penso anche negli altri disseminati in tutto il mondo, ognuno con un suo fascino particolare e ognuno con le sue storie anche fantastiche che immancabilmente nascevano e si tramandavano perché, noi che vi abbiamo vissuto, siamo convinti che un giorno, quando immancabilmente arriverà quel giorno, li vi faremo ritorno.
Così ci piace pensare che sia, per poter almeno in parte soddisfare quella voglia di rivivere quello che ormai c’è stato e purtroppo non ci sarà più.
Questo racconto lo scrissi nel 2010 nonostante non sia mia arte farlo ma ... mi sono sentito in dovere di ricordare la figura di mio padre reggente del faro sino al 1978 insieme al suo collega e carissimo amico Elio Vitiello.
5 commenti:
Caro Giuseppe mi spiace che nessuno abbia rilasciato un commento. Io sono Antonio Serafino fu Michele collega di tuo padre e sono stato dal 1960 al 1970 al farò isola Sant 'Andrea di Gallipoli e ricordo perfettamente la cisterna della M. M METAURO che ci riforniva l' acqua ogni 3mesi. Soltanto noi figli dei fanalisti possiamo avere nel cuore nobili sentimenti e ricordi di esperienze indimenticabili che nessuno potrà mai capire.
Caro Giuseppe apprezzo molto il tuo articolo ed è chiaro che non tutti possano capire che quei ricordi della tua infanzia hanno un posto fisso nel tuo cuore. Io sono Antonio Serafino fu Michele collega di tuo padre e sono stato a Gallipoli sull'isola Sant 'Andrea dal 1960 al 1970 e ricordo perfettamente tutte le operazioni che il personale della Metauro svolgevano quando ogni 3 mesi ci rifornivano d' acqua. Soltanto chi ha vissuto le nostre esperienze in posti isolati può dire di aver trascorso un'infanzia felice e per pochi. Ti saluto con affetto anche senza conoscerti personalmente.
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ciao giuseppe, per caso mi sono imbattuto nel faro e ancor di piu nel tuo racconto....bellissimo, hai ricreato le atmosfere, gli odori, i sogni di un bambino, ragazzo che le ha vissute in prima persona e le ha fatte vivere a me soltanto leggendo! bravo, voglio ringraziarti per questo e se passando dalla puglia, sicuramte visitero il Otranto e il suo faro.! grazie
Puccio Calogero
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